La spada dei re

Testo di Italo Garavaldi

* La fotografia in copertina è di Leonardo Sagnotti scattata durante l’evento “Giornate medioevali di Poggio di Otricoli 2017”.
* La fotografia che ritrae il ferro ritorto rovente (rievocazione storica a Castell’Arquato) è di ImpressumSara Colciago.
* Le altre immagini sono liberamente tratte dal profilo facebook di Manolo Bellocchi.
* Tutte ritraggono all’opera il fabbro rievocatore Manolo Bellocchi dell’associazione culturale Opificium.
* Immagine sul frontespizio del racconto (allegato in PDF): lucchetto di probabile epoca e ambito culturale bizantino, databile indicativamente dal VII al X sec. d.C. – Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche dei Musei Archeologici di Milano.

Incontrare in un gruppo storico o durante una rievocazione un fabbro e la sua fucina è poco frequente. Non è infatti facile reperire le competenze, la manualità e la passione che occorrono. E poi bisogna ricostruire le attrezzature dell’epoca, trasportare materiali pesanti, affrontare problemi di sicurezza, … il tutto per qualche visitatore distratto, magari pure infastidito dal calore e dal rumore dei colpi di martello. Eppure, quelle attrezzature arcaiche e quei gesti solo all’apparenza semplici nascondono buona parte dei progressi che hanno consentito alla nostra specie di passare dal neolitico all’era digitale. L’evoluzione delle conoscenze in campo metallurgico è materia complessa. Una trattazione storico-ingegneristica risulterebbe complicata e pesante. Per tale ragione, si è scelto di affidarne uno dei tratti più significativi ad un brevissimo racconto di genere storico-fantasy (disponibile in allegato). Il presente articolo si limiterà a contestualizzarlo storicamente e a fornire poche annotazioni utili ad una migliore comprensione dell’argomento.

Una novità tecnica, fosse essa tale in assoluto o perché compariva all’improvviso in un’area geografica dove ancora non era conosciuta, poteva permettere a chi ne possedeva il segreto di produrre beni materiali di livello molto superiore a quelli disponibili sino a quel momento.

Questa superiorità, in talune circostanze, poteva essere tale da far ritenere questi oggetti magici? E, in ragione di ciò, poteva da uno di essi nascere un mito che sarebbe durato per secoli? Probabilmente sì … e questa, sotto traccia, è la tesi del breve racconto, che – senza alcuna pretesa di verità – fornisce una nuova ipotesi sulla genesi di uno dei più grandi miti della letteratura cavalleresca. Nel seguito si tenterà di analizzare e sviluppare alla luce delle moderne conoscenze ingegneristiche e storiche quanto narrato.

A tratti, nella storia, l’evoluzione tecnica sembra procedere in modo lineare e graduale. Talora, invece, con accelerazioni improvvise, progredendo “a gradini”. In questo articolo ci concentreremo su uno di questi “salti” tecnologici in campo metallurgico, forse uno dei primi e più significativi nella metallurgia del ferro: l’acciaio a pacchetto.

Innanzitutto va chiarito che se per ferro si intendesse il metallo puro, l’elemento chimico (Fe), concretamente avremmo a che fare con un materiale molto costoso da ottenere, estremamente ossidabile e dalla scarsa resistenza meccanica. Dunque, in pratica, ciò che nel linguaggio comune da sempre chiamiamo ferro è in realtà acciaio, cioè una lega di ferro e carbonio. Oppure, se la percentuale in peso di carbonio nella lega superasse il 2% circa, ghisa (materiale più idoneo ad essere fuso che forgiato e che, dunque, non tratteremo in questo articolo).

In funzione della percentuale di carbonio, di altri componenti secondari e della presenza di impurità varie in lega, si hanno acciai diversissimi tra loro. Oggigiorno è possibile produrre un acciaio perfettamente titolato, ma un tempo non era così: era relativamente facile ottenere acciai durissimi (cioè molto ricchi di quel carbonio che il ferro assorbiva dalla legna o dal carbone nelle fasi di estrazione dal minerale) o molto teneri (dove cioè quasi tutto il carbonio prima assorbito veniva poi eliminato nelle successive fasi di affinamento), ma non un metallo dalle precise caratteristiche intermedie.

Chi, ad esempio, avesse fabbricato una spada col metallo del primo tipo, avrebbe ottenuto un’arma molto resistente dopo la tempra, che non si sarebbe piegata e che avrebbe mantenuto a lungo l’affilatura, … ma che si sarebbe spezzata in due come un pezzo di vetro al primo impatto violento. Viceversa, utilizzando il materiale del secondo tipo, una spada insensibile alla tempra, da raddrizzare e da riaffilare continuamente.

Il primo grande passo in avanti nella metallurgia del ferro per ottenere manufatti che riunissero in sé le migliori caratteristiche dei due tipi di acciaio fu probabilmente la tecnica del cosiddetto acciaio a pacchetto”. Essendo descritta in dettaglio nel breve racconto allegato, non mi dilungherò nella sua esposizione. Dirò solo che l’idea, in termini molto sintetici, era quella di saldare insieme per fucinatura delle barrette dei due diversi tipi di acciaio, ottenendo poi con ripiegature e ribattiture successive una struttura sandwich (a strati) formata da tanti lamierini di metallo duro e dolce (tenero) alternati. Queste due diverse anime si compensavano, si aiutavano a vicenda, riducendo di molto gli svantaggi dei due materiali originali: la fragilità dell’acciaio più duro e la scarsa durezza e resistenza di quello più tenero. Se il numero di ripiegature successive era elevato, la sottigliezza dei diversi layers (strati) e il calore permettevano una migrazione chimica degli atomi di carbonio dall’acciaio più duro a quello più dolce, ottenendo una certa omogeneità finale, abbastanza prossima alla titolatura intermedia desiderata.

Solo a titolo di curiosità, segnalo che le famose katana (le spade dei samurai) vengono ancor oggi fabbricate da alcuni artigiani giapponesi con questa tecnica millenaria.

L’acciaio a pacchetto era certamente già noto agli etruschi (e.g. Cfr. studi di C. Panseri sulla “Lama Falcata di Vetulonia” del VII sec. a.C.)[i], seppure ancora caratterizzato dalla realizzazione di pochi strati. Verosimilmente, inoltre, i fabbri di quel popolo avevano già intuito che sulle caratteristiche meccaniche finali dell’oggetto costruito con un determinato tipo di acciaio aveva poi una notevole influenza anche il tipo di lavorazioni che subiva. Era presumibilmente noto, ad esempio, come la deformazione plastica a freddo fosse un efficace meccanismo finale di rinforzo del metallo (incrudimento): indicative le tracce di questa tecnica sulla stessa “Lama Falcata di Vetulonia”[ii].

Altra tecnica già nota in antichità[iii] ma probabilmente un po’ più tarda fu poi la cosiddetta cementazione (nota anche come carburazione superficiale o carbocementazione), un trattamento termochimico che – seguito dalla tempra – consentiva di ottenere un notevole indurimento superficiale in un acciaio dolce (cioè a basso tenore di carbonio, che non sarebbe stato possibile indurire semplicemente temprandolo), realizzando così lame dure e resistenti in superficie ma con un’anima interna capace di assorbire urti violenti senza spezzarsi. Poteva dunque costituire un’alternativa un po’ meno pregiata ma più economica (o un trattamento migliorativo) dell’acciaio a pacchetto. Quasi certamente era noto agli etruschi anche questo procedimento, le cui tracce, a titolo d’esempio, sono riscontrabili con buona attendibilità anche nella famosa “Daga di Chiusi” del III sec. a.C.[iv] Nel racconto allegato si descrivono in termini semplici e molto concreti la cementazione in cassetta, la tempra, il successivo rinvenimento e i loro effetti. Si rimanda dunque a quel testo per ulteriori dettagli sui questi trattamenti.

In un periodo interessato da una forte interazione culturale ed economica tra il loro popolo e quello etrusco, i romani ebbero occasione di assorbire e successivamente sviluppare queste e altre tecniche metallurgiche già note ai fabbri etruschi. E tale osmosi ha certamente giocato un ruolo significativo nella superiorità tecnica che l’esercito romano avrebbe poi mostrato nei secoli successivi[v].

In una civiltà molto organizzata come quella romana, tali conoscenze saranno sicuramente state formalizzate e diffuse, seppure all’interno di ambiti protetti. Ma nel disordine seguito alla crisi dell’impero romano è logico pensare che in Europa si sia ricaduti in una situazione di scarsa circolazione delle competenze, fossero queste scoperte rivoluzionarie o piccoli trucchi utili nel proprio mestiere.

In questo periodo di generale arretramento tecnico, militare e civile si inserisce il racconto in esame, ambientato nell’Inghilterra meridionale nel periodo successivo all’abbandono di quelle terre da parte dei romani. L’ipotesi su cui si fonda la trama è che la tecnica dell’acciaio a pacchetto, nota ai romani e nel frattempo andata dispersa, riapparendo per una circostanza accidentale e scomparendo subito dopo con la morte dell’ultimo erede dei segreti dei fabbri romani, ma producendo nel frattempo un oggetto che non poteva che lasciare stupiti per la sua enorme superiorità prestazionale, abbia generato un mito senza tempo.

Seppure non vi siano dei riferimenti diretti, risulterà evidente al lettore il filo che collega la storia narrata al ciclo arturiano. E benché si tratti di narrativa, dunque senza alcuna pretesa di attendibilità storica, molti sono gli elementi che rendono la sua tesi di fondo non meno verosimile di altre ipotesi relative allo stesso oggetto mitico.

Alcuni studiosi non escludono infatti che la leggenda di Artù possa contenere un piccolo fondo di verità storica. Gli scrittori medievali potrebbero, in questo caso come in altri, aver raccolto storie scritte e tradizioni orali più antiche ispirate ad un qualche condottiero che avrebbe lasciato memoria di sé per aver difeso con coraggio e valore le isole britanniche dagli invasori sassoni tra la fine del V secolo e l’inizio del VI, nell’epoca cioè di grande instabilità che seguì all’abbandono della Britannia da parte dei romani (inizi V sec. d.C)[vi].  Analogamente, anche la sua mitica spada, Excalibur, che appare la prima volta in un testo scritto con il nome di Caliburnus (abbr. Caliburn) ad opera di Goffredo di Monmouth (prima metà del XII sec.)[vii], potrebbe rifarsi a racconti popolari nati all’epoca dell’Artù storico attorno ad un’arma da sembrare magica proprio perché tecnicamente molto superiore a quelle di normale produzione nel suo periodo.

E’ poi altresì noto da riscontri archeologici che in Inghilterra non tardò a ricomparire l’acciaio a pacchetto (pattern-welding steel), tecnica che infatti, seppure con peculiarità proprie di esecuzione e di non facile attribuzione d’origine culturale e geografica, ritroveremo meno di un paio di secoli dopo nelle spade dei re sassoni dell’Inghilterra sud-orientale, quale ad esempio quella rinvenuta nel 1939 nel sito di Sutton Hoo, nel Suffolk (GB), e databile al VII sec.[viii]

Abbiamo dunque:

– una tecnologia metallurgica certamente nota ai romani (presenti in Britannia fino agli inizi del V sec. d.C.);
– una tecnica di forgiatura che può spiegare l’enorme superiorità di una spada rispetto alle comuni lame in acciaio dolce coeve … e che (sebbene di origine incerta) ritroveremo sempre in Inghilterra a distanza di un paio di secoli nelle spade più pregiate dei capi sassoni (VII sec. d.C.);
– a metà strada (inizi VI sec. d.C.), un’ipotetica spada dalle caratteristiche straordinarie (Excalibur), tali da aver forse lasciato un ricordo nei racconti popolari, successivamente raccolti nei romanzi cavallereschi medievali.

Non rimane che leggere.

Si allega un brevissimo racconto – molto preciso sugli aspetti tecnico/metallurgici – che ruota tutt’attorno alla costruzione di un oggetto mitico del passato. In uno scrupoloso rispetto delle disponibilità materiali e delle possibili conoscenze dell’epoca, si narra di come potrebbe essere nata una delle leggende più note di tutto l’occidente. 

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Questo breve racconto, insieme ad altri tre di altrettanti autori, fu scritto nel 2017 su invito del Museo Storico dei Lucchetti di Cedogno (PR), che li raccolse in un’originale opera editoriale illustrata di ispirazione fantasy dal titolo “Il Signore dei Lucchetti”.

Ricostruzioni sperimentali

In rete sono facilmente reperibili immagini, video e tutorial di ricostruzioni sperimentali di spade in acciaio a pacchetto secondo diversi stili e con numerose varianti in funzione del contesto storico e geografico (ambito italico, sassone, vichingo, …). Parole chiave di ricerca: acciaio a pacchetto, damasco saldato, pattern welding, pattern welded sword, damascus steel, damascus blade, etc.

Bibliografia
R. Bruce-Mitford, “The Sutton Hoo Ship Burial, Volume II: Arms, Armour and Regalia”, BMP, London, 1978.
C. Carino, M. Leoni, C. Panseri, “Ricerche Metallografiche Sopra Alcune Lame Etrusche di Acciaio”, Istituto Sperimentale Metalli Leggeri, Milano, 1957.
A. Giumlia Mair, R. Maddin, “The Iron Civilization” a cura di W. Nicodemi, Ed. Olivares, Milano, 2004.
C. Mapelli , W. Nicodemi, R. Venturini, R. Riva, “Risultati derivanti da nuovi esami realizzati su manufatti bellici del VII a.C. e III a.C. rinvenuti in Etruria”, in “La metallurgia italiana”, rivista dell’AIM (Ass. Italiana di Metallurgia), Milano, settembre 2006.
Joshua J. Mark, “The Historical King Arthur”, Ancient History Encyclopedia (rivista online), articolo pubblicato il 16 maggio 2017.
G. di Monmouth, “Storia dei re di Britannia”, trad. G. Agrati e M. L. Magini, Guanda, Milano, 2005.
G. Phillips, “Re Artù. La vera storia”, Mondadori, Milano, 2017.

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[i] C. Carino, M. Leoni, C. Panseri, “Ricerche Metallografiche Sopra Alcune Lame Etrusche di Acciaio”, Istituto Sperimentale Metalli Leggeri, Milano, 1957, 1-39.
[ii] C. Mapelli , W. Nicodemi, R. Venturini, R. Riva, “Risultati derivanti da nuovi esami realizzati su manufatti bellici del VII a.C. e III a.C. rinvenuti in Etruria”, in “La metallurgia italiana”, rivista dell’AIM (Ass. Italiana di Metallurgia), Milano, settembre 2006, 15-24.
[iii] A. Giumlia Mair, R. Maddin, “The Iron Civilization” a cura di W. Nicodemi, Ed. Olivares, Milano, 2004, 113-136.
[iv] C. Mapelli , W. Nicodemi, R. Venturini, R. Riva, op. cit.
[v] C. Mapelli , W. Nicodemi, R. Venturini, R. Riva, op. cit.
[vi] Joshua J. Mark, “The Historical King Arthur”, Ancient History Encyclopedia (rivista online), articolo pubblicato il 16 maggio 2017.
[vii] G. Phillips, “Re Artù. La vera storia”, Mondadori, Milano, 2017, 54-55.
[viii] R. Bruce-Mitford, “The Sutton Hoo Ship Burial, Volume II: Arms, Armour and Regalia”, BMP, London, 1978, 209-212.

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