La danza nell’antichità

A cura di Federica Garofalo
Immagine fornite da Elisa Anzellotti

C’è una figura femminile divenuta molto popolare nella rievocazione del periodo romano negli
ultimi anni, ed è quella della danzatrice. Il problema è che non è sempre rappresentata nel modo
giusto: le suggestioni delle danze del Nord Africa e del Medio Oriente islamico vi entrano quasi
regolarmente, danza del ventre compresa (e c’è anche da discutere quanto quest’ultima sia
contemporanea), e in contesti non sempre corretti, come quelli militari.

Ma come appariva davvero la danza agli occhi di Etruschi, Greci e Romani?
A questa domanda si è incaricata di provare a rispondere la tarquiniese Elisa Anzellotti, non solo
ballerina e coreografa di provata esperienza, ma dottoressa di ricerca in Storia dell’Arte
all’Università di Parigi 8 e all’Università della Tuscia, tra l’altro con una tesi sulla danza come
patrimonio culturale immateriale e i problemi legati alla memoria e archiviazione di questa arte.
Elisa possiede dunque tutti gli strumenti non solo coreutici ma intellettuali per rimanere
letteralmente “con i piedi per terra” e per farci quasi visualizzare fonti alla mano, le danze
dell’antica Italia.
Questo perché la danza fa parte dell’esperienza umana, fin dalle epoche più remote, come
l’introduzione sottolinea molto bene, e mette in connessione popoli e culture diverse: la danza è
legata a doppio filo con il sacro, propizia la fertilità del suolo, la guarigione dalle malattie, stabilisce
attraverso il corpo un contatto diretto con la divinità. L’autrice entra in punta di piedi nelle tombe
etrusche, e dipana le matasse dei vasi, svelandoci danze che uomini e donne eseguivano durante i
simposi, le danze armate, solenni e marziali, a metà tra ginnastica e coreutica, le danze “teatrali”
che accompagnavano celebrazioni religiose o pubbliche come la composta geranos, la “danza delle
gru” che evocava l’uscita di Teseo dal Labirinto del Minotauro, o la comica kordax, scomposta e
“dionisiaca”.
Un certo spazio è dedicato alle danze greche, delle quali ad esempio le statuette di terracotta
tanagrine datate tra il IV e il III secolo a.C. ci fanno intravvedere la leggiadria; tanto che
comprendiamo benissimo perché poi, nell’alta società romana, si danzasse alla greca. Non solo,
danzare poteva essere visto come un esercizio ginnico per fortificare il corpo come un altro, specie
se si trattava di danze armate o pirriche, tanto che, secoli dopo, il Romano Cornelio Nepote si
stupirà del fatto che la danza facesse parte del bagaglio perfino di un generale del calibro del
Tebano Epaminonda.
Questo perché nel mondo romano, in teoria austero, danzare era roba da donne e da bambini, e
apostrofare un romano perbene con l’appellativo di “cinaedus” (“ballerino”) era il peggior insulto
che si potesse immaginare. E, nella maschilista società romana, anche le matrone dovevano stare
molto attente a come mettevano i piedi, pur se Orazio riporta, storcendo il naso, la mania delle
azzimate signorine della sua epoca per le danze greche.
Elisa Anzellotti ci riporta del tripudium, la danza dei sacerdoti salii, delle danze saltellanti eseguite
dagli istrioni durante i Ludi Scaenici” istituiti secondo Tito Livio nel 365 a.C., ma anche della
pantomima e del mimo, le danze dei professionisti, il cui sfondo erano i teatri o le grandi domus
patrizie durante banchetti importanti.
La danza nell’Antichità, si può definire, insomma, un’ottima introduzione all’argomento che aiuta a
ricollocare la danza nell’Italia dell’Antichità nei giusti contesti; tuttavia si sente un po’ la mancanza
di una precisione maggiore nella ricostruzione sperimentale dei movimenti e delle coreografie
partendo dalle fonti. A quanto pare, però, questa pubblicazione è concepita come il primo passo di
un lavoro ricostruttivo più ampio; e forse, dunque, basterà solo aspettare.

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