Fòm San Martèin

Testo di ITALO GARAVALDI
Immagine di copertina di GIANNI DALL’ARGINE
Fotografie di ANGELO TRINCA

Ogni anno, nel fine settimana più prossimo all’11 novembre, nelle stupende corti agrarie sparse nelle frazioni del comune di Gattatico (RE) l’Associazione Culturale Tannetum organizza la rievocazione storica “Fòm San Martèin” (che in dialetto emiliano significa “Facciamo San Martino”)I bellissimi scatti in bianco e nero di Angelo Trinca riportati nell’articolo si riferiscono ad una delle edizioni di questa rievocazione e ben rappresentano lo stato d’animo di chi a San Martino doveva lasciare casa e lavoro per un futuro incerto. In questo articolo parleremo di ciò che vuole raccontare questa rievocazione, dunque cos’era e cosa rappresentava il giorno di San Martino nelle campagne della pianura padana fino alla riforma agraria del 1950 e un po’ oltre (la mezzadria fu abolita nel 1964, ma solo nel 1982 furono convertiti in contratti di affitto gli ultimi contratti di mezzadria ancora in essere).

Il giorno di San Martino (11 novembre) segnava la fine dell’anno agrario e, con esso, la scadenza del contratto di lavoro del mezzadro (che era annuale e che poteva essere rinnovato oppure no, a totale discrezione del proprietario del podere). E ogni autunno si ripresentava al mezzadro questa insicurezza sul proprio futuro, un’angoscia che si ripeteva di anno in anno.
Per il contadino al quale non veniva rinnovato il contratto significava perdere non solo il lavoro, ma anche la casa. In questo giorno avvenivano quindi i traslochi e frequentemente s’incrociavano coi loro carri le famiglie che andavano e quelle che arrivavano.
Per molti poveri mezzadri e le loro famiglie, dunque, a dispetto delle condizioni atmosferiche normalmente buone in quei giorni d’autunno, la cosiddetta “estate di San Martino” era un periodo molto grigio: l’11 novembre dovevano andarsene via.
Sul carro venivano poste le poche masserizie di loro proprietà, i bambini, i vecchi, … e si partiva. Erano così comuni questi trasferimenti da un’abitazione ad un’altra a San Martino che anche nelle città prese piede l’abitudine di traslocare in quel periodo, tanto che si usa ancor oggi dire “fare San Martino” per indicare il trasloco.
Ma per chi aveva scampato il pericolo e la paura per ciò che poteva accadere nel nuovo anno, quel giorno si trasformava in un giorno di festa, favorita dal vino vecchio che proprio in quei giorni occorreva finire per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata. [rif. www.assparcosud.org/].

Fa riflettere il fatto che nel medioevo un contratto agrario non poteva durare meno di 29 anni e quanto la giurisprudenza dell’epoca fosse ferocemente protettiva nei confronti del conduttore del fondo (era quasi impossibile per il proprietario rescindere un contratto prima del tempo). Questo dà la misura di quanto fossero arretrate le consuetudini e le leggi che governavano la vita nelle nostre campagne fino a non molti decenni fa.

Superare questa situazione di arretratezza normativa e di sfruttamento del lavoro non era facile, soprattutto per l’atteggiamento pervicacemente ostile a qualsiasi spinta innovatrice e progressista sul piano sociale di una parte consistente della grande e media borghesia agraria padana (i cosiddetti “agrari”).
Tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento i socialisti, i cattolici popolari, il movimento cooperativo e l’associazionismo bracciantile riuscirono ad innescare un lento ma incisivo cammino di cambiamento nelle campagne, interrotto poi dallo scoppio della prima guerra mondiale. Nella fase finale del conflitto, però, soprattutto allo scopo di tenere a freno il malcontento generalizzato di gran parte della popolazione per le pesantissime conseguenze della guerra, le autorità civili e militari dovettero promettere riforme post-belliche, tra le quali alcune concessioni volte a mitigare le terribili condizioni di vita e lavoro di braccianti e mezzadri, che aspiravano al possesso di piccoli lotti di terra in aree golenali di proprietà del demanio, di terreni di bonifica e di piccoli appezzamenti derivanti da parziali espropri di grandi latifondi lasciati incolti. Lo slogan era “la terra ai contadini”.
Alla fine del conflitto, socialisti, movimenti rurali, leghe e camere del lavoro chiesero alla politica di dar seguito alle promesse fatte e inanellarono diverse iniziative di pressione. Gli scioperi dell’estate del 1920, in particolare, dove la sconfitta degli agrari fu clamorosa, sembrarono aprire finalmente la strada ad una stagione di riforme. Ma la controparte, attaccatissima ai propri privilegi, fece ricorso alla violenza, finanziando senza badare a spese lo squadrismo fascista (i “fasci di combattimento” erano nati a Milano nel marzo del 1919).
Costituite per lo più da ex militari (molti di essi ufficiali) insoddisfatti dal ritorno alla vita civile, attaccabrighe smaniosi di menar le mani, rampolli di famiglie aristocratiche e della borghesia terriera (spesso studenti liceali o universitari che risiedevano nelle città, preoccupati del destino delle loro ingenti fortune e dei loro privilegi), da ragazzi poco più che adolescenti che la retorica della guerra appena conclusa faceva vivere nel mito delle armi che non avevano potuto imbracciare al fronte per la loro giovane età, da piccoli imprenditori agricoli (contadini che lavoravano terra di loro proprietà spaventati dalle rivendicazioni socialiste e sindacali), … queste squadre furono il braccio violento della repressione nelle campagne e, progressivamente, anche nelle zone urbane e nel resto della penisola.
Ben equipaggiati di mezzi di trasporto e armi proprio dagli agrari, questi gruppi paramilitari furono determinanti nel controllo del territorio, nel soffocare il dissenso e, in ultima analisi, nell’ascesa del fascismo. Senza di essi, infatti, difficilmente si sarebbe potuta portare a termine con successo la marcia su Roma (ottobre 1922). L’Emilia Romagna e in parte le provincie lombardo-venete immediatamente confinanti a nord del Po furono quindi la culla del fascismo e di molti suoi esponenti di primo piano, che proprio all’esperienza dello squadrismo agrario dovevano fama e potere personale (Balbo, Grandi, Arpinati, … i cosiddetti “ras”).
Il debito di riconoscenza del fascismo nei confronti dei finanziatori di questa sua prima fase, che poi si rivelò fondamentale per il suo successo su scala nazionale, di fatto congelò ogni serio tentativo di cambiamento generalizzato dello status quo nelle campagne per quasi tre decenni.
I nostri poveri mezzadri, quindi, si dovettero rassegnare a vivere l’angoscia del San Martino per molto tempo ancora.
[rif. Montanari M., Ridolfi M., Zangheri R., Storia dell’Emilia Romagna – vol. 2 Dal seicento a oggi, Bari, Ed. Laterza, 2004 – cap. “Il fascismo: dalla regione alla nazione” di Patrizia Dogliani].

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