Il ritorno del cavaliere

Articolo di Federica Garofalo e Rosa Tiziana Bruno
Fotografie di Gioacchino Sparrone

Il cavaliere è sicuramente la figura della storia medievale che più ha lasciato traccia nella civiltà occidentale, forse quella che più di tutte non è rimasta relegata alla dimensione storica, ma è penetrata profondamente nell’immaginario un po’ di tutti; non per niente, il cavaliere è il protagonista per eccellenza delle fiabe, quello che salva la principessa o la fanciulla da mostri e cattivi in generale.
Da un bel po’ gli specialisti si affannano a spiegarci che il cavaliere dei poemi medievali e delle fiabe non è quello della storia, che la realtà è ben più dura e spietata rispetto all’immagine che ce ne siamo costruiti, indagano le sue origini, sviscerano le cause storiche e sociali che hanno introdotto, nel contesto brutale della guerra medievale, l’ideale cavalleresco.
Eppure, a volte, si ha l’impressione che questa lettura storica nuda e cruda possa risultare un po’ limitativa, perché la domanda rimane: perché, ancora oggi, nel XXI secolo, la figura del cavaliere continua ad essere ancora viva ed attraente? Forse può sorgere il dubbio che effettivamente esista, oltre che “il cavaliere reale”, “la realtà del cavaliere”, e che, soprattutto, non sia solo qualcosa di relegato in un passato lontanissimo o nel “c’era una volta” delle fiabe.

 

Non è questa la sede per un excursus storico sull’origine del cavaliere e sulla nascita della “cavalleria”, e per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento rimandiamo ai dettagliati studi di Franco Cardini, come Alle radici della cavalleria medievale (Bologna, Il Mulino, 2014), o L’acciar de’ cavalieri (Firenze, Le Lettere, 1997). Aggiungiamo che qui non si vuole affatto idealizzare la situazione: la guerra rimane sempre “quell’antica festa crudele” descritta così bene da Franco Cardini, fatta da gente addestrata allo scopo fin dall’infanzia, in cui il fattore economico non era affatto di seconda importanza, e in cui ciò che si teneva a mostrare erano innanzitutto la risolutezza di fronte al pericolo, anche se si trattava di lanciarsi in una carica in prima linea a rischio della vita, lo spirito di corpo con i propri pari, quel famoso “onore” che era fondamentalmente il dovere di non passare per vigliacco.
Non dobbiamo sottovalutare, però, il peso dell’ideale: con il tempo, la “cavalleria” diventa un vero e proprio ordine, e, come tutti gli ordini, ha le sue regole, molto severe. A cominciare da quelle date nell’investitura, una vera e propria cerimonia religiosa che culmina nel momento in cui il sacerdote consegna la spada al nuovo cavaliere dicendogli in Latino (con tutte le variabili locali): «Sii coraggioso, generoso e leale.». Queste tre parole riassumono tutto uno stile di vita che punta, in qualche modo, al dominio del cavaliere su se stesso. Questo non significa mancanza di violenza, al contrario, e non potrebbe essere altrimenti, dato il contesto in cui vive: il cavaliere è quasi obbligato a sviluppare la propria forza, a superare continuamente se stesso, ad essere il primo. Le cronache dei tornei e delle battaglie sono zeppe di episodi di coraggio che sfiorano l’incoscienza, o di morti orribili affrontate con una fermezza da lasciare esterrefatti. A questo “uomo dei record”, tuttavia, si ordina di mettere la forza delle sue armi al servizio di chi armi non ha, che siano “le vedove e gli orfani” come dice il loro giuramento, i chierici, i pellegrini in viaggio per la Terra Santa, o la popolazione delle proprie terre: un obbligo forse unico nella storia dell’uomo, e che proprio per questo dovette fare i conti con la riluttanza di una casta di guerrieri abituata a ragionare esattamente al contrario, ma che fu capace di imprimere la sua direzione a tutta una società.
E, in tutto questo, la donna ha una parte tutt’altro che trascurabile: nei romanzi cavallereschi, in particolare quelli di Chrétien de Troyes, molto letti nelle corti del XII e del XIII secolo, la dama, la “signora”, è la causa scatenante, la ragione per cui il cavaliere si lancia nelle imprese più mirabolanti; e, al tempo stesso, è colei che lo educa allo spirito di cortesia, mettendo in chiaro che egli deve usare la sua forza non per prenderla con la violenza ma per meritare il suo amore combattendo nel suo nome. Un’altra rivoluzione non da poco, in un mondo brutale come quello militare in cui lo stupro era ordinaria amministrazione.
E, se dai poemi cavallereschi del Medioevo passiamo ai grandi poemi del Rinascimento e dell’Età Moderna, vediamo che la figura del cavaliere ritorna, sempre più marcata, dall’Orlando Furioso di Ariosto alla Gerusalemme Liberata di Tasso, fino al don Quijote di Cervantes: con un pizzico di nostalgia, come testimonianza di un mondo che non esisteva più. O forse come una specie di “modello alternativo” da proporre all’irrigidimento dei tempi presenti, in cui le distanze tra i “signori” e la “plebe” si allargavano sempre di più? Forse la risposta è un’altra: proprio in Età Moderna si capisce in qualche modo che il cavaliere è un archetipo, cioè un cavaliere si può nascondere in ogni uomo, basta tirarlo fuori, fin da bambini.
Ed esattamente a questo servono le fiabe. È bene rendersene conto una volta per tutte: le fiabe, come diceva molto bene lo scrittore Italo Calvino, non sono semplici “mondi di fantasia”, la fantasia è soltanto un mezzo per poter guardare la realtà senza diventare di pietra. Una specie di specchio, insomma, che riflette la parte più profonda dell’uomo, sia che si tratti del singolo sia che si tratti della comunità.

A volte noi adulti sottovalutiamo la capacità dei bambini di trarre fuori l’essenziale da una fiaba. Se raccontiamo loro, ad esempio, la storia di Re Artù, sia pure nella versione un po’ più alla loro portata, ammesso che non abbiano capito tutto il contorno, almeno una cosa ce l’hanno ben chiara: Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda sono coraggiosi, generosi e leali, proprio come imponeva il rituale dell’investitura, e anche loro vorrebbero diventare così.
Vale la pena di entrare un po’ più a fondo nel significato di queste tre parole. “Coraggioso” vuol dire letteralmente “dal cuore grande”, e non per niente nel Medioevo, per descrivere un uomo forte all’ennesima potenza si diceva “di gran cuore” (come non ricordare il soprannome di “Cuor di Leone” attribuito al re Riccardo d’Inghilterra?); la parola “generoso” racchiude in sé l’aspetto del sacrificio e della gratuità, cioè lo “scomodarsi” o esporre addirittura la vita stessa per qualcosa di “altro” da sé (la dama, il re, una persona più debole, una causa) senza aspettarsi niente in cambio; “leale” rappresenta sostanzialmente il divieto di mentire, l’onestà di fronte a se stessi e agli altri facendosi carico delle conseguenze delle proprie azioni, buone o cattive.
Salta subito all’occhio come questi tre aspetti siano strettamente legati: non si può essere degli eroi se non si è pronti al sacrificio e alla correttezza, non c’è dono di sé nel momento in cui non si ha una certa spina dorsale e non si è disposti a farlo sinceramente, e il prendersi la responsabilità di quello che si compie richiede una bella dose di fegato e di altruismo. Tre aspetti che sono legati anche materialmente, attraverso quello che è un po’ il marchio del cavaliere, e il mezzo attraverso cui esercitarli: la spada.

La spada non è un semplice “strumento da combattimento”, sia ben chiaro.
È molto di più, è un simbolo, che può essere espresso in mille modi.
Anzitutto, fin dall’Alto Medioevo, la spada è uno dei simboli del re, gli viene consegnata insieme alla corona e allo scettro al momento dell’incoronazione: è il segno del potere, il mezzo con cui difendere i suoi sudditi. Guardacaso il “cavaliere” delle fiabe è quasi sempre figlio di un re, ma nelle fiabe più antiche, come quelle seicentesche del napoletano Giambattista Basile o nelle novelle medievali, può essere anche il re in persona. Anzi, il re rappresenta il massimo di tutte le virtù del cavaliere, dev’essere super-coraggioso, super-generoso, super-leale, proprio per poter dare l’esempio; e, tornando ad Artù, proprio perché lui è “super”, anche se è un ragazzino di sedici anni, è l’unico che riesce ad estrarre la spada dalla roccia e dunque a diventare re. Ma dato che Artù è un re, e dunque un “super-cavaliere”, più degli altri ha il dovere sacrosanto di migliorare sempre di più, di superare se stesso: una crescita senza fine, racchiusa nel momento in cui, dato che la sua spada si è spezzata nel duello contro il gigante Pellinore, la Dama del Lago gli “presta” una nuova spada, Excalibur, che gli garantirà sempre la vittoria e il cui fodero guarirà le sue ferite.
Ecco che la spada si trasforma in un qualcosa di sacro, in qualcosa capace non solo di dare morte, ma anche vita; Excalibur ha un nome proprio, spesso Re Artù giura su di essa, come avesse un’anima. E, proprio perché ha un anima, e dunque non gli appartiene, quando sarà in punto di morte, Artù sentirà il dovere di farla gettare nel lago dal suo scudiero, e dunque di restituirla alla Dama del Lago. Questo gesto ha il sapore di qualcosa che finisce, e il lettore, con l’amaro in bocca, può anche credere che i valori dei Cavalieri della Tavola Rotonda siano scomparsi in quel lago; dall’acqua esce però la mano della Dama del Lago, che afferra Excalibur e la porta con sé sott’acqua, lasciando intendere che un giorno potrà anche ritornare alla luce, insieme a Re Artù e i suoi cavalieri, addormentati nella magica valle di Avalon.
Viene in mente un po’ la vicenda del paladino Orlando il quale, prima di morire nell’agguato a Roncisvalle, tenta di spezzare la sua spada, la sua amata Durandal, perché non cada nelle mani dei Saraceni, ma visto che la lama si rifiuta di spezzarsi, la nasconde con il suo stesso corpo, insieme al suo olifante. Quella spada sarebbe ancora conservata a Rocamadour, in Francia, conficcata nella pietra delle mura della città.
Ancora una “spada nella roccia”, dunque, una spada che diventa quasi una reliquia, un mezzo attraverso cui ricevere una forza, verrebbe da dire, soprannaturale.
Come anche quella del cavaliere Galgano, ancora piantata nel masso della chiesa diroccata in provincia di Siena che porta il suo nome: proprio lì, alla fine del XII secolo, egli aveva rinunciato alla vita da cavaliere preferendovi quella da eremita, e aveva suggellato la sua decisione con un gesto materiale, cioè conficcare la sua spada nella pietra. L’uomo d’armi divenuto uomo di preghiera lasciava la sua spada per sempre, ma prima vi pregava innanzi, come innanzi a qualcosa di sacro. Una spada che, a quel punto, prendeva l’aspetto di una croce.
Già, perché la spada ha effettivamente forma di croce, simbolo sacro per eccellenza, e non solo per il richiamo alla Croce di Cristo: essendo il simbolo della giustizia del re, posta nella mano del cavaliere, gli affida il compito di rendere giustizia e combattere, oltre i nemici esterni che possono minacciarla, anche e soprattutto quelli annidati dentro di lui. Il doppio taglio della lama della spada consegnata al cavaliere ha un significato simile: uno per attaccare i nemici della propria anima (e della fede), l’altro per difendere coloro che non hanno armi.
Il bello, però deve ancora venire: nella simbologia medievale, la croce rappresenta anche l’uomo stesso, composto dall’anima (braccio verticale) e dal corpo (braccio orizzontale), in armonia fra di loro. Essa ricorda dunque al cavaliere il dominio che deve esercitare su se stesso; così come la simbiosi tra il cavaliere e il cavallo è incarnazione dell’equilibrio tra istinto e ragione che egli deve perfezionare sempre più per riuscire al meglio nelle sue imprese. Se il cavaliere viene disarcionato, è perché il legame tra il braccio verticale e quello orizzontale si è spezzato, la razionalità ha fatto ribellare l’aggressività per averla trattata con troppa violenza, oppure l’aggressività non è stata incanalata nella direzione giusta.
Perché il cavaliere è e rimane un guerriero, e la sua “aggressività” (intesa come forza rivolta contro qualcuno o qualcosa) viene perfino potenziata, con la spada e il cavallo, ma queste armi sono al servizio degli inermi.

Si potrebbe dire: sì, d’accordo, ma questo riguarda i poemi cavallereschi o le fiabe. E oggi, nel terzo millennio, nell’era di internet, la figura del cavaliere esiste ancora, ed è ancora attuale?
Anche solo a dare uno sguardo agli scaffali di una qualunque libreria, verrebbe da dire di sì, se libri e saghe fantasy come quella di Tolkien, i cui eroi, pur se celati sotto altri nomi, sono sempre incarnazioni della figura del cavaliere, vanno a ruba.
Ma c’è ben altro: negli ultimi anni, il mondo della Living History ha visto un vero e proprio boom di iscritti ai corsi di scherma storica, soprattutto tra i maschi (anche se non mancano le rievocatrici che si allenano all’uso della spada); alcuni gruppi, addirittura, propongono una vera e propria iniziazione alla cavalleria, con tanto di investitura finale in chiesa.
Si potrebbe anche sorridere di queste pratiche e considerarle qualcosa di folcloristico, di completamente staccato dalla realtà. Invece le cose non sono così semplici: i rievocatori, nella stragrande maggioranza dei casi, scelgono una sola epoca, costruiscono un personaggio che calzi con la propria interiorità, e, come in uno psicodramma, diventano effettivamente quel personaggio indossandone l’abito, e affidandogli così (come all’epoca che rievocano) la propria anima.
Per saperne qualcosa in più abbiamo preso un campione di 11 uomini, dai 20 ai 40 anni, che praticano scherma storica da tempo, e abbiamo posto loro quattro domande:

1) Chi è il guerriero per te?
2) Qual è il tuo rapporto con la spada? Senti un nesso tra questo e il tuo essere uomo, e, se sì, quale?
3) Cosa provi prima, durante e dopo un duello? Come ti poni nei confronti del tuo avversario? Per te cosa significa vincere e cosa significa perdere?
4) Trovi che, rispetto a prima di praticare questa disciplina, il tuo rapporto con l’altro sesso sia cambiato, e in che cosa? Ti senti protettivo nei confronti dell’altro sesso in generale e delle donne che conosci in particolare?

Il risultato complessivo si è rivelato sorprendente: anzitutto si tratta di uomini con i piedi ben piantati per terra, per nulla “alienati”, consapevoli che essere “cavaliere” nella realtà è molto più difficile che esserlo in rievocazione. È comunque vero che buona parte di loro, specie i più giovani, è arrivata alla Living History dopo esser passata per i giochi di ruolo e con un bel bagaglio di letture fantasy alle spalle: ciò rivela un dettaglio importante, ossia che la scherma storica è il punto di arrivo di un percorso iniziato fin dall’infanzia, nell’età in cui un po’ tutti abbiamo visto i maschietti di casa sfidarsi a duello armati di spade di plastica e con la confezione del panettone al posto dell’elmo; duelli in cui lo scopo era “vincere”, non “partecipare”, proprio come l’etica cavalleresca imponeva, scopo cui, come riconoscono molto onestamente, gli intervistati tendono ancora oggi, purché il duello avvenga in assoluta correttezza. In tutto questo, la spada assume un ruolo predominante, proprio perché rappresenta il legame con il loro essere uomini: magari non tutti ne hanno coscienza, ma tutti riconoscono di avere una specie di “spada interiore” con cui combattere nella vita reale, o di provare un piacere quasi fisico non solo ad impugnare la loro propria spada, ma anche semplicemente a contemplarla, lucidarla, prendersene cura. Il risultato è che rivestire il ruolo del cavaliere li aiuta ad incentrarsi di più sulla propria identità maschile, a riscoprirne e a valorizzarne le qualità migliori, e dunque ad avere un rapporto più equilibrato con l’altro sesso; alcuni hanno addirittura confessato che l’esercizio della scherma storica ha fatto “evolvere” il loro rapporto con le donne in un modo che altrimenti non sarebbe uscito fuori così: l’aver acquisito forza e insieme l’aver abbracciato l’etica cavalleresca li porta a considerare la donna come qualcosa di prezioso (non “debole”) da difendere e da far sentire bene, non come un oggetto di conquista.

Dunque possiamo concludere che la figura del cavaliere (intesa come archetipo) non è affatto sepolta nell’oblio, ma, al contrario, resta sempre viva e valida. Valida magari anche come un modello maschile positivo da proporre a giovani e giovanissimi, che offre loro una via positiva per incanalare la propria naturale tendenza alla lotta, e insieme un’etica di comportamento con le loro coetanee; questo può essere un metodo certamente più fruttuoso per affrontare il problema della violenza sulle donne rispetto al reprimere puramente e semplicemente questa tendenza, oppure al lasciarla incontrollata come una mina vagante.
D’altronde, questo lavoro si può cominciare a fare attraverso la fiaba, magari raccontata esattamente com’è uscita dalle mani dell’autore, senza il timore che alcuni personaggi possano apparire “antiquati”. Non c’è niente di obsoleto nelle fiabe, quel “c’era una volta” nasconde in realtà un eterno presente che c’è stato in passato c’è oggi e ci sarà anche in futuro: ogni personaggio ha qualcosa da insegnarci, e, come in uno specchio, non solo i bambini ma anche gli adulti vi possono vedere riflessi se stessi e il mondo in cui vivono.

(Nelle fotografie possiamo cogliere gli aspetti raccontati nell’articolo. Molto significativa è quella dove si vede il cavaliere Marco da Ceneda – Vittorio Veneto – 1°CLASSIFICATO alla giostra di Cividale, offrire il suo trofeo ai genitori di un ragazzo scomparso).

«Altri dettagli sulla figura del cavaliere, soprattutto come appare all’interno delle fiabe, li trovate nell’articolo “Il cavaliere: tra fiaba e realtà” sul magazine Fattore Famiglia»
http://fattorefamiglia.com/2015/03/il-cavaliere-tra-fiaba-e-realta/

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