Ricostruzione sperimentale

Una bella esperienza di “ricostruzione sperimentale”

Testo e disegni di Italo Garavaldi
Fotografie di Michael Oakes

Scopo di questo articolo è cercare di valorizzare l’attività sperimentale come strumento di conoscenza storica potenzialmente molto produttivo. Le questioni più tecniche, all’apparenza di scarso valore storico generale e raramente approfondite dalle fonti,  possono infatti fornire indicazioni interessanti di tipo storico-sociologico ed essere efficacemente (se non talora esclusivamente) indagate da questo tipo di approccio. Nell’attività combinata di ricerca bibliografica e di ricostruzione sperimentale di una macchina bellica romana, oggetto dell’articolo in questione, sono emerse indicazioni che portano ragionevolmente ad ipotizzare che l’apparato produttivo militare di epoca romana avesse già sviluppato delle caratteristiche di produzione di massa che normalmente si tendono a datare tra il XIX e XX sec.: progettazione modulare, standardizzazione, intercambiabilità delle parti e decentramento produttivo. In sintesi, l’articolo descrive una BALISTA, una macchina da guerra romana, e la sua ricostruzione avvenuta nel 2007-2008 grazie al lavoro di un gruppo di appassionati di storia romana di Reggio Emilia.

Un viaggio a ritroso nel tempo di 2000 anni. Questo è ciò che ha fatto un gruppo di intraprendenti appassionati di storia e tradizioni antiche. Tutto è cominciato nel tardo autunno del 2007, quando l’Associazione Culturale Tannetum di Gattatico (Reggio Emilia) decise di impegnarsi in un progetto sulle macchine da guerra romane. L’obiettivo era di condurre una ricerca che portasse alla progettazione e alla realizzazione di un pezzo di artiglieria tra i più utilizzati dall’esercito dell’antica Roma: la “Balista”.

Prima ancora che un’antica macchina da guerra di straordinaria efficienza, la balista rappresenta un’incredibile prova di quanto la standardizzazione tecnica, la capacità produttiva su larga scala e l’organizzazione industriale dell’antica Roma fossero evolute.

In estrema sintesi, la balista romana era una specie di grossa balestra che, considerati il peso e le dimensioni, veniva trasportata smontata e successivamente riassemblata una volta in posizione di tiro. Si caratterizzava principalmente per il suo innovativo sistema di propulsione, che sfruttava la risposta elastica torsionale di una matassa di fibre animali o vegetali. Grazie alle minori criticità strutturali, rispetto al sistema di spinta di tipo flessionale (tipico della balestra) l’apparato propulsivo della balista consentiva di raggiungere potenze più elevate. In generale, a parità di energia immagazzinata, rispetto alle balestre questo principio di spinta imponeva alla balista dimensioni e pesi progressivamente più contenuti all’aumentare delle potenze in gioco.

Va precisato che la balista non fu probabilmente un’invenzione romana. Pare infatti che i primi prototipi siano stati costruiti in ambiente greco tra il V e IV sec. a.C.. Ma, come accadde per numerosi altri ritrovati della tecnica, i romani seppero svilupparla seguendo un approccio che oggi potremmo definire “scientifico” e renderla uno strumento di un’efficacia tattica difficilmente immaginabile dai primitivi inventori. A dimostrazione del grado di sviluppo che raggiunse in epoca romana, questa micidiale macchina bellica fu utilizzata in modo praticamente costante fino in età medievale, per poi essere gradualmente messa da parte con l’irruzione sulla scena Europea della polvere da sparo.

Se escludiamo le armi più primitive (spada, arco, giavellotto, ecc…), sono pochi gli strumenti di guerra che siano sopravvissuti per più di 1500 anni. Ovviamente, per adattarsi al meglio ai continui cambiamenti degli scenari tattici e delle strutture degli eserciti, in tanti secoli di “onorato servizio” ha subito diverse revisioni, ma l’impronta romana non è mai stata del tutto superata.

E’ quindi principalmente in epoca romana che si è ritenuto valesse la pena di concentrare lo studio di queste macchine. Si tratta di un periodo comunque molto esteso e nel quale si è assistito ad uno sviluppo molto articolato di queste armi. Si pensi, a titolo di esempio, che la balista ereditata dai greci e utilizzata in età repubblicana utilizzava come elemento elastico del gruppo propulsore una matassa costituita da lunghi capelli femminili, poi sostituiti da crini di cavallo. Lo stesso elemento, in età imperiale, era invece costituito da tendini animali opportunamente trattati, le cui caratteristiche meccaniche erano molto più stabili al mutare delle condizioni atmosferiche (caratteristica quanto mai desiderabile in un periodo nel quale i confini romani si spingevano sempre più a nord).

Per Roma queste macchine costituivano ciò che oggi definiremmo l’artiglieria leggera e media dell’esercito, cioè una gamma di mezzi piuttosto estesa per dimensioni e potenza. Più che di una macchina sarebbe infatti più corretto parlare di una famiglia di macchine, tutte costruite attorno ad uno stesso principio di propulsione. Sommariamente potemmo dire che questa famiglia si divideva in due gruppi principali, che si differenziavano per il tipo di oggetto che veniva lanciato: una palla di pietra o un dardo. Nel primo caso la macchina prendeva il nome di “balista”, nel secondo caso di “catapulta”.[i]  In ciascuno di questi due gruppi, poi, troviamo macchine di taglia e potenza diverse. Nel caso delle catapulte, ad esempio, abbiamo macchine da un cubito, due cubiti, tre cubiti, … , ovvero macchine capaci di lanciare dardi lunghi un cubito, due cubiti, tre cubiti, … (essendo un cubito un’unità di lunghezza pari a circa 50 cm). Vi erano poi diverse altre varianti, non tutte coeve, quali ad esempio macchine con l’affusto dotato di ruote, ecc.

Dalle fonti e dall’analisi dei pochi resti archeologici, costituiti principalmente dalle parti metalliche, risulta evidente come il dimensionamento di queste macchine fosse di tipo “modulare”, ovvero che le dimensioni fondamentali dei loro componenti più importanti fossero multipli di un “modulo”, molto probabilmente costituito dal diametro della matassa di fibre del gruppo propulsore. In altre parole, una volta fissato questo modulo, cioè il diametro della matassa (scelta quasi obbligata in funzione della taglia della macchina), quasi tutte le altre dimensioni importanti della balista erano multipli interi di questa dimensione fondamentale.[ii] Questa strategia tecnica rendeva semplice una cosa a quei tempi complicatissima, ovverosia decentrare la produzione, in quanto capitolati tecnici molto semplici e sintetici permettevano la fabbricazione di parti intercambiabili (o intere macchine) da produttori diversi e anche molto lontano dalle fabbriche di Roma. Permetteva cioè di emanciparsi dal tipico modello di produzione artigianale, caratterizzato da conoscenze tecniche non trasferibili separatamente dall’artigiano che le possedeva e da continue operazioni di aggiustaggio/adattamento sui pezzi di ricambio. Non è difficile intuire quale vantaggio costituisse per gli strateghi romani il poter contare su mezzi dalle dimensioni e dalle prestazioni costanti (non dipendenti cioè dal singolo artigiano che li costruiva), o cosa significasse il non dover trasportare macchine e pesanti pezzi di ricambio da Roma quando si dovevano attraversare le Alpi o il mare (visto che era relativamente facile riprodurre pezzi e macchine in loco).[iii] Questa elevata standardizzazione tecnica, che ritroveremo nella storia recente solo dopo la rivoluzione industriale, è indice di una straordinaria modernità del sistema produttivo romano. Ed è forse l’informazione più interessante che emerge da questi studi.[iv]

Il gruppo di volontari dell’associazione Tannetum ha scelto di ricostruire uno dei modelli di balista più utilizzati dall’esercito romano all’inizio dell’età imperiale, probabilmente grazie ad un suo rapporto peso/potenza particolarmente vantaggioso, ovvero la “catapulta da due cubiti”.[v]

Come si accennava in precedenza, i ritrovamenti archeologici di età romana relativi a questi antichi pezzi d’artiglieria sono costituiti da poche parti metalliche. Gli elementi risparmiati dal tempo e ancor oggi misurabili sono quasi unicamente le flange di aggancio delle matasse, costruite in bronzo. Partendo dal foro di queste si può dedurre il diametro della matassa (ovvero il “modulo”) e, da questo, si può avere un’idea delle proporzioni della macchina e delle dimensioni dei suoi principali componenti. Il timore era però che tutto ciò fosse insufficiente, ovvero che lasciasse troppo spazio alla discrezionalità. In realtà, disegnando la catapulta, ci si è trovati davanti a scelte quasi obbligate su gran parte delle misure, dei materiali utilizzabili e delle tecniche realizzative. Sì può quindi ragionevolmente supporre che sia stata riprodotta una macchina da guerra sufficientemente conforme all’originale romano.[vi]

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[i] Nel linguaggio comune, seppure impropriamente, anche la catapulta è comunemente denominata “balista”.

[ii] A titolo di esempio, oggigiorno, in un riduttore meccanico, in un cambio automobilistico, … (in generale in ogni ingranaggio), si utilizzano ruote dentate con lo stesso modulo. Ossia, il loro dimensionamento è di tipo “modulare”.

[iii] Probabilmente da Roma (o dai centri principali dell’impero) si trasportavano solo i materiali di più difficile reperibilità in loco e i particolari di più difficile produzione sul campo, quali ad esempio le parti fuse in bronzo.

[iv] Esistono tracce epigrafiche (inventari di magazzini bellici) già di epoca greca e ritrovamenti di scorte militari di epoca romana che testimoniano la produzione di pezzi di ricambio per queste macchine. In una produzione di tipo artigianale ci si aspetterebbe l’immagazzinamento di sole materie prime e di macchine finite, non di semilavorati e parti di ricambio. Bisogna dunque ammettere che i concetti di tolleranza dimensionale e di forma, l’utilizzo di maschere e dime di fabbricazione/collaudo, le verifiche tramite strumenti di controllo simili ai moderni tamponi/forchette P/NP, …, comunemente ritenuti frutto dell’epoca delle grandi produzioni di massa post rivoluzione industriale, siano forse retrodatabili di quasi due millenni.

[v] L’anno successivo venne poi costruita dalla stessa associazione una seconda macchina, di analoghe dimensioni, una balista per il lancio di sfere di pietra. Continuò poi l’attività di ricostruz. sperimentale con altre produzioni (una groma, un cavallo di troia, etc.). La catapulta e la balista sono ora nelle disponibilità dell’Ass. Culturale “Legio I Italica”.

[vi] Al tempo di Vitruvio i dettagli costruttivi di queste macchine erano con tutta probabilità ancora considerati “segreti militari”. E’ quindi verosimile che i genieri dell’esercito romano a cui si rivolse non gli abbiano fornito tutti i dati corretti. Nonostante infatti lo sforzo di attenersi alle sue indicazioni, la prima balista prodotta sottoponeva la corda di spinta ad una tensione elevatissima (che ne causava spesso la rottura) senza produrre nel contempo sul dardo l’accelerazione che ci si sarebbe aspettati. Sono dunque state necessarie diverse modifiche per portarla ad un livello di funzionamento accettabile. Un altro esempio che avvalora questa ipotesi ci viene dalla “catapulta di Cremona”, appartenuta alla Legio IV Macedonica (ritrovamento dell’aprile 1887 presso il Borgo di Porta Ognissanti), che presenta particolari di dimensioni molto distanti dai canoni di Vitruvio.

Bibliografia
Flavio Russo – “L’artiglieria delle legioni romane” – ed. Libreria dello Stato, Istituto Poligrafico e Zecca delle Stato, Roma 2004.
Flavio e Ferruccio Russo – “Tormenta: venti secoli di artiglieria meccanica” volumi I e II (testo e tavole) – ed. Stato Maggiore Esercito-Ufficio Storico, Roma 2002.
Ralph Payne-Gallwey – “The crossbow medieval and modern military and sporting. Its Construction, History and Management with a treatise on the balista and catapult of the ancients and an appendix on the catapult, balista and turkish bow” – ed. The Holland Press, London 1958.
Jean Liebel – “Springalds and great crossbows” – ed. Royal Armouries (Monograph 5), Leeds 1998.

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