Quando a “suonare” erano le aquile

Intervista a cura di Federica Garofalo

Fotografie dall’archivio della casa editrice Dielle

 

“Augusto, Marco Antonio e l’allarme rosso”

Ci sono tanti modi per raccontare una storia: alcuni davvero insoliti, come… le monete! È quanto fa ormai da anni Daniele Leoni, uno dei fondatori del gruppo veronese di Living History Vicus Italicus, che coinvolge adulti e bambini nella vita quotidiana romana del I secolo d.C. Dal 2009 è ideatore e autore  della collana “Le Monete di Roma” per la Dielle Editore di Verona.

Il titolo non deve trarre in inganno: i cinque volumi usciti sinora, dedicati ad altrettante figure di imperatori della Roma antica (Traiano, Nerone, Adriano, Settimio Severo e Augusto) non sono affatto una trattazione numismatica sulle monete emesse da ognuno di loro.

«A me piace considerare ognuno di questi volumi come una sorta di racconto illustrato,» evidenzia l’autore. «Una moneta, nel mondo romano, non era soltanto un mezzo economico, ma soprattutto comunicativo, un po’ l’equivalente di un manifesto di propaganda: questo perché sul verso della moneta sono presenti una serie di immagini e di simboli, tutte con un significato preciso, immediatamente percepibile dagli uomini dei territori soggetti a Roma. Dunque, ponendo in sequenza e in ordine cronologico le monete emesse da un singolo imperatore nel corso della sua vita, e confrontando i messaggi che portano impressi con le fonti scritte a nostra disposizione, è possibile ricostruire una storia fatta di parole ed immagini.»

Una “illustrazione” delle vicende raccontate dagli storici antichi come Tacito o Svetonio? Forse qualcosa in più:

«Le immagini delle monete vanno al di là della semplice biografia mediata dal pensiero o dalla convenienza del singolo autore: attraverso di esse si può percepire la personalità reale dell’imperatore in questione, le sue motivazioni, quale idea egli avesse del proprio potere e cosa volesse far conoscere di sé. E questo mette in luce anche aspetti trascurati dalle fonti scritte, talvolta  in contrasto tra di loro. Ma c’è anche il “rovescio della moneta”: proprio per questa contraddittorietà delle fonti diventa difficile collegarvi il messaggio della moneta. Inoltre esiste il problema che il 50% delle monete riporta tutta una serie di personificazioni di virtù tipicamente romane e di attributi che noi, a differenza dei fruitori diretti di duemila anni fa, facciamo fatica ad interpretare.»

Tanta fatica, ma ne è valsa la pena: i volumi della collana “Le Monete di Roma”, grazie al loro carattere divulgativo e ad uno stile scorrevole e stuzzicante, hanno avuto un’ottima accoglienza, da parte di un pubblico eterogeneo, formato non soltanto da specialisti, appassionati del settore e rievocatori, ma che comprende perfino i ragazzini delle scuole medie. Oltre ad essere presenti nei bookshop dei principali musei archeologici d’Italia come quelli di Roma o di Napoli, esiste anche un’edizione in Inglese di tutti i volumi, molto richiesti all’estero. L’ultima pubblicazione, Augusto. Il Triumvirato, esce proprio alla fine del 2014, in coincidenza con il bimillenario della morte del primo imperatore, e ripercorre la prima parte della sua vita, fino al 28 a.C., quando, in seguito alla vittoria su Marco Antonio, Caio Giulio Cesare Ottaviano, figlio adottivo di Giulio Cesare, si ritrovò di fatto il padrone assoluto di Roma. Qual è la storia che raccontano le monete?

«La storia di un uomo dalla forte personalità, che non si è tirato mai indietro, contraddittorio, calcolatore nel pubblico come nel privato. Non aveva per nulla la stoffa del condottiero né l’aura leggendaria del suo prozio Giulio Cesare, ma a questo supplì il “gioco di squadra” con i suoi due collaboratori e amici più fidati: Agrippa, che vinse le sue battaglie, e Mecenate, che ne creò un’immagine semidivina grazie a poeti del calibro di Virgilio e Orazio. Un abilissimo giocatore, impegnato in una partita a scacchi dalla quale uscì vincitore assoluto.»

Una particolarità interessante di questo libro è che solo metà è dedicata ad Ottaviano; il resto fa spazio ai suoi nemici, i quali, detto per inciso, lo sorpassavano di gran lunga per impatto e popolarità, e i cui nomi sono entrati nella leggenda. Nomi del calibro di Cleopatra, di Marco Antonio: soprattutto quest’ultimo giganteggia nella audacia, fascino, spregiudicatezza, e le cui monete, paradossalmente, sbandierano gli stessi ideali della romanitas ostentati dal suo rivale. E, tra quelle monete, si nasconde una sorpresa, anzi, un vero e proprio scoop, qualcosa di cui nessun saggio, italiano o straniero, aveva mai parlato.

«Si trova qui, sul verso di alcuni denari della “zecca itinerante” fatta apposta da Antonio per pagare le legioni al suo comando,» ci svela Daniele Leoni. «Oltre al nome della legione cui era destinata e alle insegne manipolari, al centro campeggia l’insegna dell’aquila: l’insegna per eccellenza dell’esercito romano, anzi, la personificazione stessa della legione, la cui perdita era considerata il più grande disonore concepibile. Ebbene, al collo di quest’aquila si nota, chiarissimo, una sorta di campanello; questo particolare lo troviamo sia sul verso di monete di età repubblicana, sia su raffigurazioni visibili su monumenti quali la Colonna Traiana. Si trattava, probabilmente, di un tintinnabulum, un segnale sonoro di particolare importanza.»

Quello del tintinnabulum era un suono che, già dall’antica Grecia, aveva il significato di “avviso” o “allarme”, e dunque, nel mondo romano, un tale strumento era utilizzato, sotto altre forme, anche in contesti non militari: ad esempio, l’apertura del mercato, o, durante le cerimonie religiose, per richiamare l’attenzione dei fedeli nel momento del sacrificio. Il tintinnabulum, d’altronde, è arrivato quasi fino a noi attraverso il cerimoniale ecclesiastico: con questa parola si indicava, fino al Concilio Vaticano II, un grosso campanello sospeso in cima ad un’asta di legno decorata utilizzata durante le processioni, e il portarlo era un privilegio.   Qual è dunque la conclusione di Daniele Leoni?

«Che l’insegna dell’aquila potesse non essere un segnale solamente visivo ma anche sonoro. Una macchina da guerra del calibro della legione romana aveva bisogno di un efficiente sistema di coordinamento: coordinamento che all’epoca era rappresentato soprattutto da segnali uditivi emanati da strumenti a fiato come tubae, cornua, fistulae. Durante lo svolgimento di una battaglia, l’aquila, insieme alle altre insegne, si trovava dietro il fronte, e il soldato che la portava, l’aquilifero, era obbligato a difenderla a prezzo della vita: dunque, forse, questo miles, appena si fosse accorto che l’insegna si trovasse in pericolo di essere depredata dagli avversari, avrebbe potuto scuoterla in modo da far suonare il tintinnabulum, e una parte delle file della retroguardia si sarebbero strette attorno ad essa per proteggerla.»

Anticipiamo che l’indagine di Daniele Leoni non si fermerà qui: ci saranno altre ricerche, dal punto di vista storico, archeologico, iconografico, e anche dell’archeologia sperimentale. Intanto diamo appuntamento alla prossima primavera, se tutto va bene, per il secondo volume: Augusto. Il Principato.

Per saperne di più:

www.dielleditore.com
www.lemonetediroma.com

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